ALESSANDRO CUCINOTTA: «La tv dei sentimenti? Il dolore non deve mai diventare un contenuto»

Nell’epoca in cui la “TV dei sentimenti” domina il racconto pubblico delle emozioni, Alessandro Cucinotta, conduttore e showman siciliano, invita a guardare oltre la superficie. In questa intervista riflette su empatia, limiti etici e responsabilità di chi trasforma vissuti reali in narrazione. Tra verità e spettacolo, sincerità e costruzione, Cucinotta analizza il ruolo del conduttore come custode dell’intimità e indica la direzione per una televisione più autentica e rispettosa.

Negli ultimi anni la “TV dei sentimenti” sembra dominare i palinsesti: secondo te, è un segno di empatia o di spettacolarizzazione dell’amore e del dolore?

Credo sia un po’ entrambe le cose. La TV dei sentimenti nasce dal desiderio sincero di connettersi con le persone, di creare empatia. Ma a volte, nel tentativo di emozionare, rischia di cadere nella spettacolarizzazione. Il punto è questo: la differenza la fa l’intenzione. Se racconti un dolore per far riflettere, è arte; se lo fai solo per far piangere, diventa marketing.

Alessandro Cucinotta 2 Quootip

Come si fa a mantenere un equilibrio tra racconto autentico e rispetto della privacy quando si trattano storie personali e delicate?

Con delicatezza. Il conduttore deve essere un po’ come un regista invisibile: deve guidare le emozioni senza appropriarsene. Il confine è sottile, ma si sente. Quando una persona si affida a te per raccontare qualcosa di profondo, ti sta dando fiducia, non contenuto. E quella fiducia va protetta.

Ti è mai capitato di sentire che un momento televisivo “emotivo” stava diventando troppo costruito o forzato?

Sì, e in quei momenti capisci quanto sia importante la sensibilità di chi è in conduzione. Quando una scena inizia a sembrare “costruita”, il pubblico se ne accorge subito. È lì che devi riportare tutto all’essenza, magari con una pausa, uno sguardo, o una domanda sincera. La verità, in TV, non ha bisogno di copioni.

Pensi che il pubblico cerchi davvero emozioni sincere o piuttosto la possibilità di immedesimarsi nei sentimenti altrui?

Credo che cerchi entrambe. Le emozioni sincere toccano, ma l’immedesimazione unisce. Quando vedi qualcuno vivere in TV un momento che tu stesso hai vissuto, ti senti capito, anche se non lo conosci. È lì che la televisione smette di essere solo spettacolo e diventa condivisione.

Molti programmi hanno dato vita a matrimoni, seguiti da figli, e in altre occasioni hanno portato a clamorose rotture. Davvero il piccolo schermo può condizionare la vita delle persone?

Sì, la TV amplifica tutto: l’amore, la rabbia, la fragilità. Vivere un sentimento davanti alle telecamere è come vivere sotto una lente d’ingrandimento. Può essere bellissimo, ma anche destabilizzante. L’amore, per durare, ha bisogno di intimità — e la TV, per definizione, l’intimità la mette alla prova.

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Ci sono limiti che, secondo te, la TV non dovrebbe mai superare quando racconta sentimenti, lutti o fragilità?

Assolutamente. Il dolore non deve mai diventare un contenuto. Ci sono momenti in cui la TV deve avere il coraggio di fermarsi, di dire “questo no”. Raccontare un lutto o una fragilità non significa esporla, ma onorarla. E questo lo si fa solo con misura e rispetto.

In un’epoca di social e reality, credi che la “TV dei sentimenti” abbia cambiato linguaggio o modalità rispetto al passato?

Sì, oggi il linguaggio è più diretto, più veloce, ma non sempre più profondo. È cambiato anche il modo in cui il pubblico partecipa: ormai è parte integrante della narrazione, soprattutto con i social. Un esempio interessante è “The Traitors” su Prime Video — un format che ricorda La Talpa, ma con ritmi nuovi: meno tempi morti, niente nomination, e una verità diversa, più spontanea tra i concorrenti. Ecco, credo che quella sia la direzione giusta: meno artificio, più verità.

Come vedi il futuro di questo tipo di televisione: evolverà verso un racconto più vero o resterà legato alla logica dell’audience?

Io voglio credere nel racconto vero. Il pubblico è più intelligente di quanto si pensi: riconosce quando un’emozione è costruita e quando è vissuta. L’audience si conquista con la verità, non con il rumore. La prossima evoluzione della TV dei sentimenti sarà proprio quella: tornare all’essenziale, ma con nuovi linguaggi.

Ci sono casi in cui artisti o conduttori hanno scelto di andare in onda o salire sul palco subito dopo un lutto personale: secondo te è un atto di forza professionale o una forma di difesa emotiva?

Io credo che sia un atto di umanità, prima ancora che di forza. A volte il palco diventa un rifugio, un posto dove ritrovare un po’ di sé stessi. Non è un modo per nascondere il dolore, ma per attraversarlo. Chi fa questo mestiere sa che la luce dei riflettori, in certi momenti, può scaldarti più di quanto immagini.

Tu, come conduttore, come vivresti una situazione simile? Credi che il palco possa davvero diventare un rifugio o sarebbe impossibile separare la vita privata dal lavoro?

Credo che non si possa mai separare del tutto. Io salirei sul palco con tutto ciò che sono, anche con le mie ferite. Il pubblico riconosce la verità, e la rispetta. In fondo, il palco è un luogo di condivisione, e a volte anche il dolore — se raccontato con sincerità — può diventare un ponte verso gli altri.

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